Nello Specchio di Narciso
- Marta Scavolini
- 11 ago
- Tempo di lettura: 3 min
DAL RITRATTO AL SELFIE

Matera, Ragusa, Lago di Braies nelle Dolomiti, Museo del Louvre a Parigi, Basilica di S.Pietro a Roma: uniamo i puntini di questo strano percorso ed arriveremo ad un antico mito tramandotoci dal grande autore latino Publio Ovidio Nasone (43 a.C.-18 d.C.) nel poema le “Metamorfosi” (III, vv.339-510).
L’importanza di questo racconto è tale che la psicanalisi lo ha poi utilizzato come simbolo di un particolare atteggiamento della psiche umana, quello dello sviluppo del “sentimento di sé” nella forma estrema, e quindi patologica, del “narcisismo”.
Tale termine indica la fissazione morbosa del culto di sé stessi, del proprio corpo e della propria personalità. Il mito narra di un bimbo, figlio di una Ninfa, di nome Narciso, che crescendo diventa un ragazzo di una bellezza unica. Per salvaguardare questa sua qualità, sua madre si reca dall’astrologo Tiresia che, dopo aver consultato l’oracolo, prevede che Narciso vivrà a lungo e non perderà la sua bellezza a patto però di non vedere mai il suo stesso volto.
Così Narciso cresce, bellissimo, senza invecchiare, ma pieno di sé tanto da disdegnare chiunque. Un giorno incontra l’incantevole ninfa Eco che si innamora perduta mente di lui al primo sguardo. Ma la superbia di Narciso è talmente grande da spingerlo a rifiutarla. Eco, consumata d’amore, muore lasciando su questa terra solo la sua flebile voce. Questo, però, non turba l’animo di Narciso che rimane impassibile di fronte al dolore altrui.
Allora un giorno giunge inesorabile la vendetta della ninfa. Il giovane percepisce forte l’impulso di osservare, per la prima volta, la sua immagine riflessa nell’acqua di un fiume. Ma ogni volta che Narciso si avvicina per toccarla, l’immagine si increspa e si distorce. Così il giovane, perdutamente innamoratosi di sé stesso, nel morboso tentativo di “prendersi” si spinge troppo oltre e, cadendo nel fiume, muore. La cultura occidentale, nel corso dei secoli, ha in contrato e incontra ancora oggi molti “narcisisti”: dai pittori che si sono immortalati in una sequela quasi infinita di autoritratti agli scrittori che hanno raccontato le loro vite in, a volte del tutto inutili, autobiografie.
Ma se la conoscenza umana può anche essere cresciuta avvantaggiandosi di così tanta auto celebrazione, è impossibile dire che le riesca lo stesso con la “selfiemania”, questo fiume carsico e strisciante che sta invadendo i social. E che tutto inghiotte: spazi, oggetti e perfino l’umanità. Migliaia di persone si accalcano nei luoghi resi iconici dai canali comunicativi non perché veramente interessati a “vivere “quelle realtà, ma esclusivamente per potersi “pubblicare” là dove i “famosi” si sono pubblicati in una sorta di strano gioco delle parti come se, per osmosi, la fama di quelli diventasse la fama di tutti gli altri.
Nei templi dell’arte non ci si reca per osservare le opere ma per “instagrammarcisi” davanti, affogati dentro una ressa da metropolitana che rende perfino impossibile anche solo vederle, le opere. Nei luoghi sacri non ci si reca per pregare o rendere un pietoso omaggio ad un defunto, ma per immortalarsi dinanzi al suo corpo senza vita in un gesto che del narcisismo ormai non ha più nulla tanto è andato oltre. Oltre la morale. L’unione è devastante: l’autocelebrazione e la fredda, piatta bidimensionalità del rettangolo del tele fonino messe insieme eliminano, masticandolo, il mondo reale.
Mai come oggi tanti turisti, ma così pochi viaggiatori, mai come oggi tanti ingressi ai musei, ma così pochi amanti dell’arte, mai come oggi tante presenze nelle grandi occasioni, ma così poche vere presenze. Eppure, come ci ammonisce il mito, Narciso per essersi amato troppo è morto del suo stesso amore. Tutto, non solo i mulini bianchi, ma l’arte, la bellezza, perfino le persone, esiste soltanto se è dentro uno schermo. La sua riproduzione è l’unica vera certificazione della sua esistenza.
Basta andare in qualsiasi museo che esponga un’opera davvero pop, iconica, come direbbe l’assessore medio alla Cultura, tipo la Gioconda al Louvre. Vederla, e figuriamoci studiarla, è di fatto impossibile (almeno finché c’era il vecchio allestimento) non solo per la ressa da metropolitana da Tokyo all’ora di punta, ma perché tutti alzano il cellulare per riprenderla.
Non guardano: fotografano. Esiste solo ciò che sta dentro quello schermo luminoso, che peraltro è. L’oggetto sparisce di fronte alla sua rappresentazione; ciò che non è sul telefonino o in tivù, semplicemente, non è. La realtà è ormai bidimensionale, un rettangolo fuori dal quale non è contemplato il mondo, che pure è un po’ più vasto. Il che spiega forse perché mai come oggi ci siano tanti turisti, ma così pochi viaggiatori.