La Roba o l’Anima
- Marta Scavolini

- 1 giu
- Tempo di lettura: 4 min
RIFLESSIONI SUL “TROPPO”
“…Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba”. (…) Sicché quando gli dissero che era tempo di la sciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me!”.
“La roba”, Giovanni Verga, 1880
Ebbene, munito di una vanga, Pachòm già all’al ba inizia il suo cammino. Procede alacremente e senza sosta, consumando sotto i suoi piedi quanto più suolo possibile. Ogni pezzo di terra gli sembra imperdibile, ogni collina troppo bella per essere esclusa dal suo futuro patrimonio, e così, sotto il caldo torrido, attraversa gli stermi nati campi, dicendo a sé stesso a ogni piè so spinto: questo posto «è molto buono, dispiace lasciarlo. E quanto più si va avanti, tanto meglio è. […] è ancora presto per ritornare» Così, in una corsa forsennata, ormai a poche centinaia di metri dalla base, travolto da un’insostenibile stanchezza, Pachòm muore, perdendo misera mente ogni cosa e al suo corpo ormai esanime non servirà che un piccolo pezzo di terra, quel la necessaria per essere sepolto: «Il lavorante scavò a Pachòm una tomba, prese giusto tanto quanto bastava dai piedi alla testa – tre arsini e lo seppellì».
Sintesi da “Se di molta terra abbia bisogno un uomo”, Lev Tolstoj, 1886
«E mio padre, un uomo bello e generoso, oltre alla nostra proprietà estiva e invernale, possedeva un prezioso pezzo di terra. Veramente era un pezzettino, ma dovunque andava se lo portava dietro!»
“Amore e guerra”, Woody Allen, 1975
Il rapporto con il possesso e il significato che quest’ultimo riveste nella vita degli uomini, cosi ben rappresentato qui da questa breve, ma significativa scelta di testi letterari, è un tema im portante nella indagine filosofica. Se nel XIX secolo Marx, specialmente nell’opera “Il Capitale”, lo ha analizzato in chiave “scientifica” cercando di spiegare come le dinamiche economiche influenzino gli sviluppi storici e muovano gli scontri tra le classi, nel ‘900 molti autori hanno declinato il tema in prospettive diverse.
Uno su tutti, Erich Fromm che con il suo “Avere o essere” del 1976 sposta l’attenzione sul versante psicoanalitico concentrandosi sull’analisi dell’egoismo e dell’altruismo. Per Fromm diventa fondamentale distinguere tra l’avere “esistenziale” e l’avere “caratterologico”: il primo indica la necessità e la conservazione diversamente dal secondo per il quale la finalità ultima è solo ed esclusivamente il possesso che viene fatto coincidere con la nostra stessa esistenza facendoci credere che potremmo la sciare una testimonianza di noi solo attraverso le cose che abbiamo posseduto.
Ma ciò, come raccontato da Verga, pone l’individuo di fronte all’angoscia della morte, vissuta come distacco dalla propria identità e dai propri beni terreni. In questi tempi un altro autore, Francesco Pallante, torna sull’argomento con “Liberi dal pensiero unico. La rivoluzione culturale della spiritualità”, testo nel quale alla lettura psicologica viene legata quella ambientale.
“Avere molto” o “possedere” non significa “Star bene” perché “Star bene” è qualcosa che va ben oltre i beni materiali. La vita non può essere ridotta ad un continuo shopping compulsivo, pena il collasso della psi che umana e dell’ambiente naturale. Il senso dell’essere non è possedere cose, trasformando il denaro da mezzo di scambio a scopo ultimo e non è lasciare che il consumismo fine a sé stesso ci offra solo l’inganno della felicità.
Ciò di cui l’uomo ha bisogno è un uso più maturo della propria ragione che gli impedisca di cadere nel tranello del materialismo che lo seduce con trappole emotive. Non si tratta di fare un’apologia della povertà o del pauperismo, ma di proporre un tentativo per combattere l’insoddisfazione permanente insita nelle società occidentali. Il mercato infatti si nutre di persone insoddisfatte che cercano di colmare il vuoto interiore riempiendosi di oggetti.
E questo vuoto interiore, sostiene Pallante, può essere riempito solo dalla spiritualità che non significa spingere all’apologia della povertà o del pauperismo, ma non pretendere di misurare il benessere di una nazione solo attraverso il PIL come se il Prodotto interno lordo fosse un Dio. Mercificare tutto dando valore esistenziale alla vendita dei beni, per una società, come quella attuale, che ha fatto della felicità uno dei suoi scopi, è alquanto paradossale perché: quante persone soffrono e si indebitano per invidia di chi ha di più?
La vera felicità, invece, nasce dando più impor tanza alle persone che al denaro o alle cose, alla “roba”. La vera felicità nasce quando dono, anche solo un sorriso. Senza aspettarmi nulla, altrimenti divento un “professionista dell’amicizia” che compie gesti esclusivamente quando è utile farlo. Ciò che non era Don Lorenzo Milani che dedicò la vita ai ragazzi scartati da tutti.
Quel Don Milani che aveva ben interpretato la differenza tra i due termini latini indicanti il dono: “Munus” creare un legane aspettandosi una restituzione e “Bonum” donare solo per amore. In tempi difficili come questi ciò che può farci spiriti liberi e salvare il nostro pianeta è la spiritualità, è consumare con più senso civico (merci e beni naturali, persone e sentimenti) è diventare uomini “verticali” che vivono, felici, a testa alta.





