La mia Storia
- Spazio Bianco
- 15 lug 2024
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 16 set 2024

Mi chiamo Andrei e a settembre compirò 38 anni. Se mi volto indietro vedo una vita sempre in salita. A soli 10 anni la mia mamma si ammala: un tumore al cervello. Quando ritorna a casa, dopo l’operazione, rimane ben poco di lei. Ho dovuto stringere i piccoli pugni e crescere in fretta bruciando tutte le tappe.
Gli anni si avvicendano tra un problema e l’altro ed ecco che all’età di 21 anni decido di andare in Italia per trovare lavoro. In Romania la vita non è facile specialmente se tra qualche mese nascerà il primo figlio.
Da noi c’è un motto “perché devi pagare un’altra persona per aggiustare qualcosa che si è rotto? Ci penso io” ed è per questo che ho imparato tante cose. Mi intendo di computer idraulica, elettronica, meccanica, edilizia, agricoltura ecc… Da qualche parte ci sarà un lavoro per me. Un amico mi dice che cercano montatori di arredamento a Mondo Convenienza e così comincia l’avventura.
Dopo la nascita di mio figlio mia moglie mi raggiunge a Manerbio in provincia di Brescia. Passano gli anni trasferendomi tra una città e l’altra. Ho girato quasi tutto il Nord Italia. L’ultima fermata è stata a Ferrara.
Un pomeriggio dell’8 agosto del 2015 con un amico decidiamo di fare un pic-nic sul fiume Po. Quella mattina non avevo voglia di andare là, ho ceduto all’insistenza di Bogdan.
Inconsciamente sapevo che non potevo scampare all’appuntamento con il destino. Dopo l’ennesimo tuffo, ecco che una scossa elettrica attraversa il mio corpo, non riesco a muovere nessun muscolo e sono sott’acqua vedo le mie mani come sospese, non si muovono, ho bisogno di respirare ma non posso. Alla prima boccata invece di respirare aria, bevo acqua, ancora e ancora... sono lucido.
Se Bogdan non si fosse accorto che ero in difficoltà, sarei affogato. All’improvviso due braccia mi sollevano. Finalmente respiro, ma a fatica. I polmoni recuperano ossigeno, ma non riesco a respirare, ansimo. L’elicottero dei soccorsi mi porta a Bologna, all’ospedale Maggiore. La situazione è molto grave.
Dopo 9 giorni di coma mi sveglio a Montecatone, una struttura di riabilitazione per lesioni midollari. Ma del ragazzo che ero prima non c’è più nulla. Sono completamente paralizzato dalle spalle in giù. Respiro in modo strano, ho una cannula alla trachea. I medici non sono ottimisti, la situazione è molto grave.
Ho subìto tre interventi ai polmoni, una tracheotomia, un intervento alla gola per una fistola, pieno di piaghe da decubito. Sono stato un anno senza mangiare, tre mesi senza poter bere, pieno di tubi, attaccato ai macchinari e sempre quelle luci accese 24 ore su 24. Ero ridotto pelle e ossa.
Quando mi sono reso conto che le forze mi stavano abbandonando, ho chiesto di poter parlare con un sacerdote. Pensavo che sarei morto. Per 15 mesi non ho mai visto la luce del sole, ma solo i neon della sala di rianimazione, intensiva e subintensiva.
Non ho avuto il conforto dei miei genitori, non c’era la mia mamma a stringermi fra le sue braccia per consolarmi e mio padre a darmi forza. I miei genitori erano morti 5 anni prima quando avevo solo 24 anni a distanza di un anno l’uno dall’altra. Per far venire mia moglie la dovevo pregare, volevo vedere mio figlio che all’epoca aveva 6 anni.
Pensavo che sarei tornato a casa, che avrei passato il resto della vita con la mia famiglia, invece no. Il destino che mi attendeva era un altro. Lei non mi ha voluto e così sono stato abbandonato in un ospizio.
Mi è crollato il mondo addosso, mi sentivo più solo e disperato che mai. A 30 anni, in quelle condizioni, in un ospizio, solo. Mi sono sempre chiesto perché non sono morto quel giorno.
La vita in una struttura è terrificante specialmente nelle mie condizioni, sei in balìa di estranei.
Poco dopo mia moglie decide di tornare in Romania portando con sé mio figlio.
Passano due anni e torno a Montecatone, vorrei togliere la cannula. Attraverso questo tubo si infila un sondino per rimuovere le secrezioni che si formano, altrimenti morirei soffocato perché i polmoni sono talmente compromessi da non poterle espellere. Magari in questo tempo sono migliorati, chissà.
Tutti i pazienti hanno accanto a loro figli, genitori, mogli, mariti. Io sono completamente solo. Una mattina vedo arrivare un nuovo paziente con la figlia. La vedo in difficoltà, non sa dove prendere dell’acqua per suo padre e così dico all’oss di darle la mia bottiglietta. Nel prenderla mi guarda negli occhi dicendomi “A buon rendere” e così è stato.
Da quel 15 aprile del 2019 non ci siamo più lasciati, purtroppo non c’erano i presupposti per togliere la cannula. Dopo qualche mese sono tornato nell’ospizio dove vivevo, ma non ero più solo. Grazie alle videochiamate eravamo sempre in contatto. Elena non mi ha mai e dico mai lasciato solo! La cosa strana è che si chiama come la mia mamma. Una coincidenza? Chissà. È sempre presente, sempre pronta a proteggermi e ad aiutarmi in ogni momento. Io ero e sono la sua priorità. Mi dice sempre che quando sto bene io, sta bene l’Universo intero.
Passano due anni e mezzo tra mille problemi e difficoltà più o meno gravi (nel frattempo mi devo sottoporre ad un altro intervento chirurgico, mi hanno asportato un rene) ed ecco che un Miracolo bussa alla porta della mia vita.
Finalmente ci sono tutti i presupposti per andare via da quel posto infernale e andare a vivere con Elena e Walter, suo marito. Finalmente vivrò in una famiglia che mi ama. Il 4 dicembre 2021 verso le ore 13 sono a Roncosambaccio, una frazione di Fano. Mi sono fatto promettere da Elena di non piangere. Eccola lì, emozionata e felice, è al Settimo Cielo. Finalmente il nostro sogno si era realizzato.
Non so perché, ma in fondo al mio cuore ho sempre saputo che non sarei morto dentro a quel posto. Le persone come me non le vuole nessuno. Siamo considerati un peso perché dipendiamo dagli altri in tutto e per tutto. Nessuno e sottolineo nessuno è disposto a sacrificare la propria vita e metterla al servizio di chi soffre. Nessuno o quasi.
In quel “quasi” rientra la mia Elena, il mio tutto, il mio amore, la mia Anima. Io e lei siamo una cosa sola. Ha letteralmente spalmato la sua vita sulla mia. Sono rinato, la mia vita è cambiata a 360 gradi. Sono felice vicino alla mia nuova famiglia soprattutto mi sento amato. Io sono il centro della loro esistenza, il loro Sole. Da quando sono a casa, mi sono completamente dimenticato di essere tetraplegico. Mi sento forte. E pieno di vita. È proprio vero che la disabilità è negli occhi di chi guarda.
La Vita mi ha insegnato che le cose più importanti sono la salute e l’amore, che non si devono voltare le spalle a chi soffre. Elena e Walter fanno i salti mortali per non farmi mancare nulla. Nella nostra famiglia lavora solo Walter e i sacrifici sono tanti.
Fondamentalmente siamo soli perché purtroppo lo Stato è quasi del tutto assente. La gente non vuole i problemi degli altri ed è per questo che mi sono trovato solo nel momento più brutto e difficile della mia vita. Grazie a Dio esistono le famose “eccezioni”.
Ora che finalmente ho una vita normale, una famiglia che mi ama, mi piacerebbe andare ovunque ma non posso. Con la mia carrozzina è un’impresa andare sul marciapiede se non è liscio o fare un giro in centro a causa della pavimentazione. Mi piacerebbe fare un giro in spiaggia o percorrere un sentiero un pò in salita, amo la natura, oppure entrare in un negozio, ma non posso se c’è uno scalino un pò più alto.
Ad un negoziante ho chiesto di mettere una pedana affinché potessi entrare. Mi sono sentito trattato come un cane al quale è vietato l’accesso. Tutto questo è umiliante. Nessuno sa quanto gli è concesso di vivere su questa Terra, nessuno di noi conosce il tempo che ha a disposizione, però io so che per il tempo che mi è concesso ho ancora tanti progetti da realizzare, tanti posti da vedere.
Vorrei riabbracciare mio figlio che non vedo da quasi 10 anni, se non attraverso lo schermo del mio pc. All’improvviso in un pomeriggio come tanti, è bastato un gesto banale come un tuffo per perdere tutto. Perdere tutto in un istante.
Nella sofferenza, nella solitudine, pieno di tubi e flebo per sopravvivere, ho cercato un senso a quello che mi era successo, al perché fossi ancora qui, in questa vita e in quelle condizioni… perché proprio a me? Che cosa ho fatto di male? Forse Dio dà pesi così grandi da sopportare a chi è così forte da poterli portare.
Per alcune persone sono un handicappato da compatire, un problema per chi condivide questo calvario, sono una pedina invisibile sulla scacchiera della vita. C’è chi si arrende e fa il viaggio di sola andata senza valigie. Io no.