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Corpo e Abito

MI VESTO DUNQUE SONO




La parola «moda» è un termine notoriamente difficile da definire. Possiamo provare a farci aiutare dalla etimologia: il latino “modus”, dal quale deriva, significa, tra l’altro, misura, scala, maniera, forma, qualità. Ma sembra che ciò non ci aiuti un granché.


Quel che è certo è che oltre ad usare espressioni del tipo “essere di moda”, le sfilate, i rotocalchi, le trasmissioni e i social che si occupano di abbigliamento attraggano un pubblico ampio e sempre più eterogeneo. Ormai infatti sembra definitivamente caduto lo spartiacque tra uomini e donne e dagli anni ’70 quello tra giovani e adulti per cui tutti, nel mondo moderno e postmoderno, non possono non dirsi gravitare dentro la sua orbita.


Quasi nessuno ormai, perlomeno nel mondo occidentale, può sottrarsi ai suoi dettami anche perché il mercato ha subito un tale processo di democratizzazione da permettere a chiunque di accedere a “prodotti di moda”. Al di là ovviamente dell’importanza economica del settore, se guardiamo con attenzione noteremo che la moda influenza la maggior parte delle relazioni delle persone, con sé stesse e con gli altri.


Si tratta, sotto questo aspetto, di un fenomeno che dovrebbe quindi occupare un posto importante nel nostro tentativo di capire noi stessi all’interno del nostro contesto storico di riferimento. È per questo che la filosofia, “figlia del suo tempo”, le ha rivolto il suo interesse. E così uno degli allievi del grande pensatore Husserl, Eugen Fink si è concesso una “scappatella filosofica”, dedicando alla moda un piccolo saggio dal titolo “La moda. Un gioco seduttivo”.


Qui egli nota come l’abbigliamento sia un segno distintivo della cultura umana dato che l’uomo, tra le altre caratteristiche, è l’unico animale ad essersi dato un vestito. Che lo abbia fatto, come sostiene la Bibbia, per motivi etici, o più semplicemente per questioni meramente pratiche, sta di fatto che da tempo immemorabile l’uomo senza abito non è uomo. Utilizzando qui ovviamente il termine “uomo” nella sua accezione generale di “persona”. Anche coloro che, là dove è concesso (e anche la liceità o meno del fatto è interessante di suo), praticano il nudismo, rifiutando di vestirsi, parlano di abito.


Dunque potremmo dire: “vesto o non vesto quindi sono”. L’uomo infatti vive nel mondo “incarnato” cioè dentro e attraverso un corpo e con questo corpo si relaziona con gli altri che sono a loro volta altri corpi.


Decidere perciò come vestire il nostro corpo significa decidere non tanto e non solo chi vogliamo essere, ma soprattutto chi vogliamo apparire, chi cioè vogliamo essere per gli altri. La nostra libertà risiederà nello scegliere l’abito senza condizionamenti, senza piegarsi a dettami esterni.


Se è ormai, per la nostra cultura, una convenzione vestirsi, può non esserlo quale abbigliamento assegnarci. La nostra creatività e la nostra unicità, legate alle nostre possibilità economiche, hanno spazio quando non sono omologate. Noi siamo noi e non ciò che altri dicono che dobbiamo apparire.


In questo senso l’artista è colui che incarna al meglio lo spirito di ricerca del sé perché lo fa sia attraverso l’abbigliamento che indossa sia attraverso gli abiti che ritrae o crea. Essi diventano non solo uno specchio dei tempi, raccontando la “moda” e quindi la società del periodo, ma anche una chiave di lettura del modo in cui quell’artista vedeva il mondo.


E a volte lo fa in un bellissimo gioco di specchi per cui come diceva Walter Benjamin, la moda diventa «l’eterno ritorno del nuovo». Dove il nuovo è il tramandare, trasformandola, la nostra cultura.


Vogliamo leggere così questo meraviglioso abito del 1956 firmato Fernanda Gattinoni, vera opera artistica giustamente inserita in un museo all’interno di una mostra dedicata all’arte etrusca e al rapporto che con essa ha avuto il ‘900.

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